LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"ESISTE HOMO SAPIENS, NON ESISTE HOMO ENS"

pagina creata l'11 luglio 2009 aggiornata 16 ottobre 2009

 

 

Vieni da "sapere del tempo" o da qualche altra pagina dove si insiste sulla precedenza logica dell'epistemologia rispetto all'ontologia, intesa come carattere tipico dell'epoca moderna o scientifica.

L’essere si può dire in molti modi – léghetai pollakòs – diceva Aristotele, riducendoli fondamentalmente a tre: esistenza, identità e predicazione. In realtà, il modo di essere è unico: essere è stare nella relazione di appartenenza a un insieme, relazione simboleggiata dal simbolo di Peano, la lettera iniziale di estin, “è”. Questa osservazione sottomette l’ontologia all’epistemologia. Si danno prima gli insiemi e poi si può dire se un elemento appartiene a un insieme, cioè “è” in un insieme. "Essere" è essere in un insieme o, considerando l'insieme come una variabile, essere è il valore di una variabile, secondo Quine.

Sono forse gli insiemi un  modello delle idee platoniche? In un certo senso, sì. Non formano, tuttavia, a loro volta un “insieme completo”. Non esiste, infatti, l'insieme di tutti gli insiemi, che sarebbero le “forme ideali” (antinomia di Cantor). Infatti, esistono classi che non sono insiemi. Sono le cosiddette “classi proprie” di von Neumann e Gödel, per le quali non esiste la classe di appartenenza. In un certo senso, queste classi, orfane di appartenenza, esistono poco. Esempi di classi proprie sono i linguaggi, il paterno, il femminile, tutti non riducibili a concetti conclusi in se stessi nel senso booleano (anticipato da Schopenhauer). Modernamente decade l’equivalenza parmenidea tra essere e uno, ribadita dalla metafisica aristotelica: to on kai to én tautòn ("l'ente e l'uno sono lo stesso". Metafisica, Libro Quarto, 1003b).

Data questa sistemazione concettuale, si comprende bene come la mossa moderna di stabilire la precedenza logica del sapere sull’essere fosse già preparata dal platonismo, a patto di intendere questo movimento di pensiero depurato da ogni componente idealistica. Conoscere vuol dire ricordare, secondo Platone. Tolta la buccia antropomorfa a questo detto (abbondantemente sviluppata dal mito dell’anima pellegrina dell’Iperuranio prima della nascita), si può dire che “conoscere è riconoscere”. “Conoscere” un ente – oggi, in una terminologia meno ontologica, si direbbe: un elemento – significa “riconoscere” che esso appartiene a un insieme, cioè condivide con altri elementi una certa proprietà caratteristica . L’insieme degli insiemi disponibili per il riconoscimento degli elementi costituisce il sapere del soggetto. Tale sapere è assemblato in qualche organizzazione neuronale. Come - è compito dei neuroscienziati stabilirlo. Qui basta dire che tale organizzazione è “essenzialmente” incompleta, perché manca della rappresentazione delle classi proprie. Il sapere moderno è incompleto. Oggi si riconosce l’esistenza di un sapere non già dato tutto nella sistemazione ideale delle forme (eidoi). Il sapere eccedente l'organizzazione canonica della coscienza, Freud lo chiamava “inconscio”.

Il cartesiano “cogito, sum” regola il funzionamento del sapere moderno, in entrambe le forme: conscia e inconscia. Esso stabilisce un’operazione epistemica in due tempi.

Primo tempo: “riconosco che penso”, cioè che appartengo all’insieme di coloro che pensano, in particolare al sottoinsieme di coloro che dubitano. Tale insieme non è vuoto, perché io stesso dubito. Poichè tale insieme non è vuoto, esiste un legame sociale epistemico tra pensanti.

Secondo tempo: “ammetto che sono”, cioè sono un elemento di un insieme. L’operazione cartesiana è veramente platonica (platonica sì, idealista no), perché riconosce la precedenza del sapere (riconoscere) sull’essere (dell'ente).

Tuttavia, si tratta di una precedenza par provision, direbbe ancora Cartesio. Perché? Perché il sapere del soggetto non contiene tutte le classi a cui un elemento può appartenere. “Essere donna”, per esempio, è un essere precario, perché la classe “donna” non esiste come qualcosa di concettualmente e unitariamente predicabile, prima di essere predicato. Allora si pone un problema non da poco. Come è mai possibile che qualcosa appartenga a qualcosa che non esiste o esiste poco, addirittura non esiste ancora prima che la predicazione lo faccia precariamente esistere?

La questione non era minimamente pensabile e in effetti non fu neppure sfiorata dalla speculazione antica, in particolare dalla metafisica aristotelica, la quale non distingueva tra "enunciato" ed "enunciazione". Fu la questione intorno a cui si arrovellò l'elucubrazione lacaniana. Con scarsi esiti, bisogna riconoscere, se è vero che tutto ciò che la mente fervida del dottor Lacan partorì fu la pseudonozione di manque-à-être - un'adhoccheria, la definirebbe Quine. A giustificazione di Aristotele, tuttavia, va riconosciuto che lo Stagirita aveva una concezione particolare, connotativa e non denotativa, metaforica e non metonimica, di “appartenenza”, che gli impediva di trattare certe sottogliezze ontologiche. Per Aristotele, infatti, l’attributo apparteneva (yparchei) all’elemento, nel senso che una certa proprietà era “propria” dell’elemento, cioè l'attributo era attribuibile all'ente come sua essenza (tì esti). Per i moderni, viceversa, l’elemento appartiene all’attributo, che a sua volta può non essere completamente definito.

L’incompletezza caratterizza la scienza moderna, che non è più la scienza dei principi primi o delle cause prime, che "stanno sopra" a tutto (epistamai, stare su, da cui deriva l'epistéme, intesa come la scienza di ciò che sta sopra). Tale incompletezza o mancanza di principi primi - caratteristica del relativismo moderno - è anticipata dal dubbio, che inaugura la dialettica scientifica con partenza dall’incerto e arrivo al parzialmente certo. Per il soggetto della scienza non c'è nulla che "stia sopra" a tutto e che conferisca certezza assoluta e categorica alla conoscenza - neppure dio. Semplicemente perché il tutto non esiste come insieme. Infatti, è ragionevole congetturare che non esista il metainsieme a cui il tutto appartenga come elemento. (Se dio esiste, non è certo il contenitore di tutto).

Queste, e altre considerazioni simili a queste, tutte riconducibili alla precedenza logica del sapere rispetto all'essere, giustificano l’opportunità di aprire in un sito di psicanalisi una pagina sulla logica epistemica e sulle sue manchevolezze, che forse suscitano il desiderio umano di un'irraggiungibile completezza .

Per esempio, come suggerisce il mio amico Dario Giugliano, che ha ispirato la parte più propriamente platonizzante di questa pagina, si può ulteriormente indebolire l'assunto di precedenza del sapere sull'essere, supponendo che "a monte" di entrambi, sapere ed essere, stia la loro relazione. L'indebolimento ci allontana ulteriormente dall'idealismo ed è quindi ben accetto.

Ho svolto ulteriormente l'argomento dell'incompletezza dal punto di vista di una scienza della scrittura - già candidata all'appartenenza al folto gruppo delle scienze dell'ignoranza - nel saggio su Derrida, di prossima pubblicazione su "Parol", intitolato

La grammatologia e l'incompletezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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