LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE E
GUADAGNARE"

creata l'11 dicembre 2007 modificata il 16 dicembre

 

 

Vieni da "filosofi epistemici". Sei in "Sofisti"

Due transizioni epocali

Aristotele definì la “sofistica” una “sapienza apparente ma non reale” (Sofistici Elenchi, I, 165a, 21). Così parlò il maggiordomo di Alessandro Magno, che operava per adeguare la filosofia alla volontà di potenza del padrone. Si chiamerà metafisica o ontologia tale omologazione. Da allora “essere” sarà sempre implicitamente inteso come “essere ai comandi del padrone”. “Ce discours de l’être – c’est tout simplement l’être à la botte, l’être aux ordres, ce qui allait être si tu avais entendu ce que je t’ordonne”. (Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XX, Encore (1972), Seuil, Paris 1975, p. 34). La citazione più autorevole è dal Libro. “Inizio della sapienza è il timore del Signore”, recita il Salmista (Salmo 110, 10). Lo conferma l’Ecclesiastico (16, 2), che di servilismo se ne intendeva. Il dover essere fonda l’essere. Il motto ecclesiatico è posto da Hegel come introduzione alla dialettica servo / padrone nella Fenomenologia dello spirito. Freud non fu da meno. Escogitando l’istanza psichica del Super-Io, guardiano feroce e osceno del principio di realtà, Freud aveva capito come funziona la politica. Paradossalmente, nel rispetto, pieno ma vuoto, del principio di Hume:

non dedurre il dover essere dall’essere.

Tanto ci pensa il padrone a importi il proprio essere.

Con un corollario teologico-politico, a cui prestare tutta la dovuta attenzione: qualsiasi dottrina, qualunque sia il suo contenuto, – da quella di Lacan a quella di Ratzinger, passando per i vari Bush, Putin, Chavez, Amahdinejad – se imposta ex cathedra, per il solo fatto di essere imposta è già ontologica. Il ritorno politico è che ogni dottrina è potenzialmente di destra, per non dire dittatoriale. Impone l'essere esattamente come il non essere, l'ontologia come la tanatologia. Dice di curare la vita, ma ordina la morte. Dai tempi degli antichi Romani vuole la pace ma prepara la guerra. E' ontologica, la dottrina, ma manda i suoi figli a morire in guerra. Non solo esporta la guerra, invece della democrazia, ma esercita una guerra perpetua al proprio interno, una guerra ad personam, addirittura contro le persone del proprio gruppo di convivenza. Mi riferisco a quelle piccole e diuturne scaramucce del soggetto collettivo contro l'individuale, che sono le esecuzioni capitali. Si chiama biopolitica.

Chi mi scrive un commento al Disagio nella civiltà di Freud, che corregga le tautologie freudiane, secondo le quali tu sei aggressivo perché hai una pulsione aggressiva?

Non si discute l'ontologia. Infatti, non essendo correggibile, in quanto dogmatica, la dottrina che sta a monte dell'ontologia sfugge al controllo dei fatti, tanto meno dei fatti esposti dalla minoranza che non aderisce alla dottrina stessa. Da qui il disagio, di cui la democrazia soffre in Italia e nel mondo, derivante dalle ontologie che i potenti del momento impongono ai loro popoli attraverso dottrine per lo più cervellotiche: Bush in America, Putin in Russia, Chavez in Venezuela, Amahdinejad in Iran. (In Italia ci prova Berlusconi ma fa ridere). Tali dottrine, per quanto diverse e povere di contenuti, hanno tutte lo stesso effetto: dal nulla creano l’essere delle masse che le seguono. La classe dei lavoratori sfruttati dal capitale non esiste, oggettivamente, prima di Marx. È l’effetto della dottrina marxiana. Con il proprio verbo Marx, come dio, crea ex nihilo la classe dei proletari. Di conseguenza la filosofia, tanto esposta alla tentazione dottrinaria, non avendo riscontri sperimentali che la tengano sotto controllo, deve fare molta attenzione ad assumere senza volerlo forme ontologiche di pensiero, gradite al potente (o all’oppositore del potente, ma è lo stesso). La filosofia di Aristotele, ripeto, è l’esempio principe.

Ben lontani dal discorso ontologico e dottrinario i Sofisti. Il cui travaglio, del tutto fallimentare, cerco di illustrare in questa pagina. Convinto come sono che il fallimento sofistico, pagato caro – a volte con la vita (vedi Socrate, condannato a morte da un tribunale politico, e Ippia, assassinato perché democratico, aperto ai barbari e... alla matematica) – sia quanto di più prezioso abbia da tramandarci la storia della filosofia, a patto di non intenderla in modo idealistico come incarnazione dello Spirito Assoluto… del padrone di turno.

(Purtroppo provengo dalla scuola idealistica, di cui per altro non fui mai un allievo modello. All’esame di maturità rimediai un sei in filosofia. Ciononostante il distaccarmi dal ron-ron di quel gattone che si chiamava Benedetto Croce non fu nè facile nè indolore. Il segno – la cicactrice – dell’avvenuto taglio di quel cordone ombelicale è un certo ineliminabile assetto polemico della mia scrittura che, tuttavia, non è mai polemica contro le singole persone, ma contro le istituzioni, innanzitutto mentali – le dottrine – e poi concrete – le scuole –, che tengono in ostaggio le persone.)

I Sofisti dovettero sopportare la croce – senza le delizie – di una doppia transizione. I passaggi epocali da loro testimoniati furono due, che in un certo senso si incrociavano e interferivano tra di loro, producendo al loro interno contraddizioni, antinomie (Antilogie si intitolava un trattato di Protagora) e paradossi, come due sistemi di onde in un laghetto.

La prima transizione fu in un certo senso “in tempo”, cioè al passo con i tempi. Non l’avessero tentata i Sofisti, l’avrebbe realizzata qualcun altro. La situazione è comune nella storia della scienza, data la natura collettiva del soggetto scientifico. La teoria della relatività era nell’aria alla fine dell’Ottocento. Non l’avesse inventata Einstein, l’avrebbe inventata qualcun altro. La psicanalisi idem. Non l’avesse inventata Freud, l’avrebbe inventata Jung, forse su basi più scientifiche di quelle ippocratiche di Freud, basi astrologiche, per esempio, se non proprio astronomiche. Per noi sarebbe stato più facile correggere Jung che Freud.

La seconda transizione fu decisamente “fuori tempo” e anacronistica. La prima riuscì ai Sofisti solo in parte. La seconda fallì del tutto. In proposito si impone un chiarimento.
L’analisi che segue è retrospettiva è in un certo senso “contro tempo” (à rebours), nel senso che avviene dalla posizione faticosamente guadagnata, dopo tanti tentativi andati a vuoto, ma che la prepararono, da chi la seconda transizione riuscì – bene o male – a realizzarla, almeno parzialmente. So bene che la mia analisi è poco rispettosa dei canoni storiografici stabiliti, proiettando nel passato remoto l’attualità recente. (Ho già detto che non sono stato un buon allievo della scuola idealistica. Anche in storia meritai un sei scarso alla maturità). Il suo piccolo merito è di far circolare una concezione epistemica del tempo – quello che da buon logocentrico Lacan chiamava “tempo logico” –, inteso come tempo del sapere, dove le certezze di oggi sono conquistate a partire dalle incertezze di ieri, il successo attuale dai passati fallimenti. Di più, dove gli stessi insuccessi e i fallimenti sono concepiti come tali retroattivamente e solo come effetti dei successi di oggi. Senza il successo (parziale) di oggi, l’evento del passato non sarebbe neppure riconoscibile come insuccesso. Non sono uno snob dell’antiaccademismo. Scrivo per chi ha qualche esperienza di psicanalisi. Applico qui, come nella mia pratica clinica quotidiana, il principio freudiano della Nachträglichkeit. Il trauma sessuale non è traumatico al momento in cui avviene, ma lo diventa solo dopo essere stato integrato come sessuale nella memoria del soggetto. Il trauma sessuale diventa traumatico solo dopo essere riconosciuto come sessuale. Tra il mero trauma e il trauma divenuto sessuale intercorre, secondo Freud, un tempo di latenza. Che è un tempo epistemico, prima che biologico. È il tempo per comprendere, secondo Lacan.

(Lungi da me la concezione illuminista del progresso scientifico per accumulo lineare. Mi preoccupa l’idea di fornire esca all’abbaio del pastore tedesco. Il progresso dalle incertezze di ieri alle certezze di oggi è possibile ma non scontato. Richiede il coraggio morale del soggetto epistemico, che decide di accettare o di respingere le nuove certezze, generate in modo apparentemente paradossale a partire dalle vecchie incertezze. Se il soggetto questo coraggio non ce l’ha di suo, non se lo può dare. Allora è sempre possibile che dopo un Cartesio capiti sulla scena uno sprovveduto come Husserl, che con la sua epoché vanifica per sé e per gli altri le conquiste del dubbio.)

Dicevo di due transizioni. La prima fu dal mythos al logos; la seconda dall’ontologia all’epistemologia. Vanno entrambe considerate “riforme dell’intelletto”, nel senso di Spinoza, che tuttavia non si possono comprendere intellettualisticamente, isolate in se stesse. Vanno capite inserendole nel contesto di una più ampia “riforma della vita civile”. Intendo il passaggio da forme di governo della cosa pubblica di tipo aristocratico e oligarchico a forme popolari e democratiche. Insomma, il passaggio dai pochi ai molti. Che, come vedremo, si realizza in due modi tra loro paralleli e antitetici – antiparalleli, direbbe il fisico.

Prima transizione: Dal mythos al logos
Ovvero dal plurale al singolare

I miti raccontano le imprese dei nobili. Gli dei sono i padri, gli eroi i loro figli. Il racconto è proiettato sullo sfondo della natura, che è il teatro dove le vicende nobiliari si svolgono. Si realizza così quel primissimo e originario legame tra politica e scienza, che in forme diverse e attraverso alterne vicende, si è trasmesso fino a noi. Sulla scena sono in pochi, gli aristocratici. Agiscono solo loro. Il popolo non esiste. Gli uomini aristocratici sono i soli uomini. Loro sono contemporaneamente soggetti politici e forze della natura. La filosofia ilozoista dei presocratici lo testimonia indirettamente. La natura è animata. La sua anima è quella aristocratica. Solo l’aristocratico conosce la natura delle cose e sa come operare, anche politicamente, con esse e su di esse. I miti narrano le imprese dei nobili per bocca di poeti cantori. Raccontano di come conquistarono la natura e il potere. Da questo punto di vista, tutti i miti sono varianti del mito di Prometeo, che conquista il fuoco. Il mito di Edipo, per esempio, narra la conquista di madre natura. Con conseguenze in generale poco piacevoli.

Come si esce dal mito?

È difficile uscire dal mito. Il mito crea legame sociale. Per identificazione e per incorporazione. I non nobili si identificano ai nobili, agli attori del mito e dell'azione politica, e diventano popolo soggetto all’oligarchia. Ma il meccanismo collettivizzante più efficace è l’incorporazione. Il mito viene incorporato e trasformato in un mito analogo, secondo le regole di ogni linguaggio, quello inconscio compreso, cioè la condensazione e lo spostamento. Due miti vengono condensati in uno e un mito si prolunga nell’altro. I miti si comportano come teorie matematiche. Le une sono modelli omomorfi o isomorfi delle altre. Così si passa dall’uno all’altra come si passa da un mito all’altro. Il pianeta dei miti è rotondo, dirà Levi Strauss nei Tristi Tropici. È un pianeta abitato da trasformatori di miti, che operando su certi miti si collegano socialmente tra loro. Il legame sociale prescientifico è il portato della mitopoiesi.

Quindi come si esce dal pianeta mitologico?

Cambiando legame sociale. Allora la vita politica non è più luogo di elaborazione di miti ma… del mito. Gente come Eraclito e Parmenide propongono il mito della civiltà occidentale: l’essere. È un mito democratico, senza attori privilegiati, perché tutti possono rappresentarlo. Basta che imparino l’arte della rappresentazione. Anche questa è invenzione greca. L’arte di rappresentare l’essere è il logos. Se sa rappresentarlo con il logos, l’uomo domina l’essere. Secondo Mario Untersteiner (cfr. I Sofisti, Bruno Mondadori, Milano 1996) l’anthropos metron di Protagora è l’uomo che domina – non solo misura – l’essere con il logos, cioè la parola, preferibilmente orthos, giusta.

Qui intervengono i Sofisti. A ciascuno di loro interessa la transizione dai miti aristocratici – ultimamente i miti non erano più poemi, alla Omero o Esiodo, ma storie, alla Erodoto – al mito pubblico alla portata di tutti, il mito dell’essere. Per realizzare tale transizione, che è essenzialmente politica – e tutti i Sofisti sono animali altamente politici – operano con una mossa caratteristica. Indeboliscono il riferimento alla natura ed esaltano il riferimento alla legge. Passano dalla phusis al nomos, creando le premesse per la tradizione metafisica occidentale, cioè per l’umanesimo più astratto e deteriore. Alla natura Protagora assegna la parola “vuota” (etton), alla legge la parola “piena” (kreitton), – direbbe Lacan, che di sofistica se ne intendeva. Socrate è impensabile senza Protagora.
Ma – attenzione – c’è un ma. La rappresentazione logocentrica non è univoca, anche perché il logos è duplice, significando sia "parola" sia "ragione" . Dalle Antilogie di Protagora ai Dissoi logoi (parole doppie), opera anonima a più mani, il logos non dà un solo e unico modello dell’essere, ma almeno due. Così l’ente è e il non ente è, quindi nulla esiste, secondo Gorgia. Poco male, se è vero che quel che esiste non esiste a priori, come dato oggettivo, ma è un portato del soggetto, cioè è costruito dall’uomo. Il male è che il passaggio dai pochi (i nobili) ai molti (il popolo), attraverso l’invenzione dell’Uno teorico, sfoci nella presa del potere dell’Uno pratico, cioè del dittatore. È lui che stabilisce la dottrina categorica dell’essere, imponendola a tutti, senza accettare discussioni sofistiche – “disfattiste”, si diceva in Italia nel Ventennio fascista, o “relativiste”, secondo la recente moda invalsa in Vaticano. La storia, non solo greca, è noiosamente ripetitiva su ciò. Dittatura è l’equivalente politico di ontologia in metafisica. Bel guadagno, si direbbe. Valeva la pena darsi da fare? La dittatura è meglio dei miti?
Qui si configura il primo fallimento sofistico. Ce n’è un secondo?

Seconda Transizione: Dall’ontologia all’epistemologia
Ovvero dalla dottrina alla scienza

Ridotto all’osso, il messaggio politico e morale dei Sofisti è semplice: “Tu devi saperci fare con il logos”. Se non ci sai fare, il potente di turno prenderà il sopravvento su di te e ti imporrà la sua versione del logos, cioè la propria ontologia, tagliando corto con le ambiguità logocentriche e imponendoti la propria versione dello stato delle cose. La differenza sostanziale con la cultura precedente è che, grazie ai Sofisti, il saperci fare – la virtù – si apprende, magari a pagamento da un maestro privato. La virtù non è più una faccenda innata, trasmessa con il sangue aristocratico. La virtù è una conquista epistemica. Può sempre fallire.
Semplificando al massimo, per amor di chiarezza, affermo che i Sofisti proposero una rivoluzione mentale, una vera e propria riforma dell’intelletto: il primato del sapere sull’essere. L’essere non viene prima del sapere, stabilito così com’è da qualche demiurgo. L’essere è effetto a posteriori del sapere. Il discorso sofistico, riassunto dall’intellettualismo etico di Socarate, si sintetizzava nel motto: “Se sai, sei”. Insomma, i Sofisti tracciarono la direzione lungo la quale doveva avvenire, duemila anni dopo, il soggetto della scienza: cartesiano, prima, e freudiano, poi. Lungo questa direzione fallirono il bersaglio. Furono, infatti, ridotti al silenzio dal potere costituito, attraverso i suoi filosofi ufficiali – Platone e Aristotele – che capirono bene la portata eversiva della sofistica e si adoperarono per tacitarla, imponendo l’ontologia univoca delle essenze e delle cause – Platone esperto delle prime, Aristotele delle seconde.

Vale la pena approfondire un dettaglio, tratto dalla storia della matematica, per illustrare la portata del rivoluzionario “tentativo” sofistico. I sofisti non furono solo degli oziosi retori, che discettavano di tutto e del contrario di tutto. Tra loro, nella seconda ondata sofistica, si annovera un notevole matematico, Ippia di Elide, contemporaneo di Socrate, che risolse addirittura il problema della quadratura del cerchio. Ma come lo risolse? Con una curva generata meccanicamente – corrispondente della moderna funzione arcotangente – cioè una curva generata da due movimenti contemporanei di un punto: la rotazione uniforme di una semiretta attorno al centro delle coordinate – diremmo oggi – e la traslazione a velocità costante di un punto lungo tale semiretta. Si chiamava quadratrice e costituiva uno scandalo, che offendeva la purezza degli enti geometrici ideali. La quadratrice, infatti, non si può costruire una volta per tutte con riga e compasso, quindi per l’idealismo platonico non esisteva. In un certo senso, Platone non aveva tutti i torti. La definizione della quadratrice richiede teoremi di continuità uniforme, che i matematici dell’epoca non conoscevano ancora. Diciamo che l’impresa di Ippia fu la sublime dimostrazione del saperci fare con l’ignoranza. Questo genere di anticipazioni è assai comune in epistemologia, dove il sapere individuale arriva, in casi fortunati, a prefigurare quel che non sa ancora coscientemente, ma è sepolto nell’inconscio collettivo. E che il Super-Io si adopera a mantenere sepolto. Lo sdoganamento delle curve meccaniche sarà merito solo della Géométrie di Cartesio, quasi duemila anni dopo. Per l’ontologia idealistica, ammettere curve meccaniche significava, infatti, conferire troppo potere al sapere. Pericoloso, politicamente parlando. Il sapere è vissuto dal platonismo come minaccia costantemente portata alle istituzione dell’essere. Ancora oggi la filosofia guarda con sospetto al meccanicismo scientifico, il vero nemico dell’ontologia uffficiale. Per non parlare della teologia vaticana, che nello scientismo vede il contraddittore – fittizio e puramente di comodo – alla propria razionalità, che è rimasta ellenica: prima platonica, con i Padri della Chiesa, poi aristotelica, con la Scolastica.

(L’ingenuità di Galilei fu di aver combattuto l’avanguardia – Aristotele,
 – senza affrontare le retrovie – Platone. Vinse la battaglia, ma perse la guerra. Per la contrapposizione tra la razionalità ellenica, prescientifica, adottata dalla Chiesa cattolica nei controversi concili in Asia Minore, e quella moderna, scientifica, ancora poco adottata, vedi l’illuminante saggio di Gian Enrico Rusconi, La “ragione” di Ratzinger e la ragione tout court, “Supplemento a Micromega. Per una riscossa laica”, Dicembre 2007, pp. 38-48. Ben a ragione nel suo saggio di storia della matematica, Il Rinascimento italiano, Pier Daniele Napolitani si chiede “Da dove viene Galileo?”, in La matematica. I luoghi e i tempi, vol. I, a cura di Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi, Einaudi, Torino 2007, p. 237).

Due parole per concludere, riassumendo la tesi centrale di questa pagina, che dovrebbe interessare allo psicanalista, a suo modo un sofista del sapere che non si sa ancora di sapere. Freud lo chiamava inconscio.

I Sofisti non riuscirono a consolidare il primato “scientifico” del sapere sull’essere, pur avendo intuito l’importanza della rivoluzione epistemologica. Il loro fallimento è imputabile a due ordini di motivi: uno di cui ebbero la responsabilità diretta, l’altro di cui furono solo indirettamente responsabili.
Nel loro furore controontologico, i Sofisti persero il contatto con l’oggetto. Per superare l’ontologia ilozoista, persero il contatto con la natura, sopravvalutando l’uomo, oggi si direbbe il soggetto. Risultato: proposero una filosofia senza oggetto, destinata alla vacuità. Dalla sofistica non poteva nascere alcuna scienza, tanto meno una psicanalisi, che invece è il discorso dell’oggetto. Per completezza va detto che i filosofi successivi, preoccupati di salvare l’ontologia, trascurarono di correggere l’errore sosfistico. Con il risultato che la filosofia è tuttora un discorso vuoto e senza oggetto. (L’errore forse è oggi irrimediabile. Forse, dacché esiste la scienza, la filosofia è destinata rimanere vuota d’oggetto)
La seconda ragione di fallimento è che i Sofisti si avviarono lungo una strada che strutturalmente prevedeva un secondo fallimento. A posteriori possiamo dire che, nel suo processo di avvicinamemnto all’ontologia, l’epistemologia doveva fallire una seconda volta con gli Scettici, prima di arrivare alla conclusione positiva di Cartesio. Applicando lo schematismo lacaniano del tempo epistemico, direi che con i Sofisti si realizza il primo tempo epistemico – il tempo di vedere. I sofisti vedono che l’ontologia non è categorizzabile con il logos, e quindi il sapere logocentrico può riuscire a imporsi solo con la violenza del concetto, a livello mentale, e della dittatura, a livello politico. Gli Scettici arrivano in un secondo tempo. Comprendono che il compito di imporre il sapere all’essere è impossibile, in generale. Gli Scettici sono moderni nella misura in cui intuiscono che ogni operazione epistemica è ontologicamente incompleta e che il soggetto moderno deve fare i conti con questo essenziale manque-à-être, come lo chiama Lacan. Detto, meno filosoficamente, esistono verità ontologiche – e sono la stragrande maggioranza – che l’epistemologia non sa dimostrare. Il tempo terzo, cioè il momento di concludere, è quello cartesiano. Il sapere può condizionare l’essere in casi particolari, direi quasi “fortunati”. Solo allora, con l'accettazione della definitiva parzialità del conoscere, nascerà il soggetto della scienza. Solo allora sarà possibile una psicanalisi, che “procede dal particolare al particolare”, senza aver bisogno dell’universale – il concetto – che contiene il particolare. Non il marxismo, ma la psicanalisi supera definitivamente la categoricità e la completezza dell’idealismo hegeliano, che pone in equivalenza reale e razionale. Ma per questo deve ringraziare Sofisti e Scettici, che con il loro oscuro lavoro epistemico hanno preparato l’avvento dell’inconscio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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