LA PSICANALISI SECONDO
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"TU PUOI SAPERE, SE TI METTI IN GIOCO"
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Vieni da "Filosofi epistemici" Sei in "Wittgenstein" Perché Wittgenstein è un pensatore pertinente per un sito di psicanalisi? Perché ha espresso idee condivisibili sull'ermeneutica e sulla scrittura freudiane? Credo che questo sia secondario. Wittgenstein è "psicanalitico" perché è cartesiano. Sia il primo, sia il secondo Wittgenstein, sia il filosofo del Tractatus, sia quello delle Ricerche filosofiche, a titolo diverso - più concettuale il primo, più "inconcettuale" il secondo - sono filosofi della Klarheit, cioè della chiarezza e distinzione. In quanto tali, entrambi i filosofi possono dare una mano a ripensare la psicanalisi in senso epistemico, liberandola da residui dottrinari di stampo ontologico e antropomorfo, che ne ostacolano il decollo scientifico. In modo esemplare la carriera intellettuale di Wittgenstein ripercorre l'arco della storia recente della logica, quale è venuta maturando nella prima metà del secolo scorso e si è emblematicamente condensata in due teoremi: i teoremi di Gödel, rispettivamente di completezza della logica dei predicati del primo ordine (1930) e di incompletezza dell'aritmetica elementare (1931). In logica tutto il vero è dimostrabile (logocentrismo), in aritmetica esistono verità non dimostrabili (ovviamente presupponendo la coerenza del sistema, per esempio, assiomatizzato alla Peano). In quanto segue cedo alla debolezza di presentare Wittgenstein - semplificando un po' e tagliando tutte le sue vicende umane e intellettuali certamente romanzesche - come campione di La logica del primo Wittgenstein, quella logico-filosofica del Tractatus, è, come è giusto che sia ogni logica metafisica, completa. Si conclude con la ben nota tesi: Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen, ossia "Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Non esistono verità logiche di cui non si può parlare, perché ogni verità logica è, in quanto tale, dimostrabile in un opportuno sistema assiomatico, come garantisce il teorema di completezza. La tesi finale è il "logico" pendant della tesi iniziale, che semantizza il mondo: Die Welt ist alles, was der Fall ist ("Il mondo è tutto ciò di cui si tratta" - non "che accade", Trinchero! Non confondiamo Wittgenstein con Heidegger. Wittgenstein non è il filosofo dell'evento.) Curiosamente si può identificare nella completezza logico-ontologica, intesa come originaria appartenenza vicendevole di parola e cosa, dimostrazione e verità, la corrispondenza segreta tra il primo Wittgenstein, frequentatore del Circolo di Vienna, e il secondo Heidegger In cammino verso il linguaggio, che commenta la poesia di Stefan Georg, intitolata proprio Das Wort ("La parola"). Kein ding sei wo das wort gebricht, "Nessuna cosa è dove la parola manca". Non è la traduzione poetica della Settima Tesi del Tractatus? La completezza del logos è il cardine di ogni ontologia - persino di quelle in uso nei moderni database informatici o nelle reti semantiche attive sul Web. In particolare - a Heidegger non sarebbe piaciuto questo avvicinamento di filosofia e cibernetica - la completezza fonda il locentrismo heideggeriano, dove il compito tipico del logos è quello di "lasciar essere l'interezza dell'essere" come possibilità ontologica dell'esserci, addirittura prima che l'esserci si solidifichi in qualche ente. Indipendentemente dai gusti personali di Heidegger, decisamente in contrasto con l'approccio scientifico, a proposito del quale nutriva preconcetti indifendibili, ritengo che proprio la completezza della sua logica ontologica ponga il pensiero di Heidegger off limits: in territorio extrascientifico, per la precisione prescientifico, cioè nel territorio dove si muoveva il primo Wittgenstein. (Per la semantizzazione del mondo in Heidegger - la Bewandtnisganzheit - cfr. Essere e tempo, p. 84 in tedesco, p. 249 nei "Meridiani"). Oggi, come ieri, la scienza è incompleta. "Ci sono più cose tra cielo e terra di quante non ne sogni la tua filosofia, Orazio", dice all'amico l'eroe tragico della modernità. Questa è la novità di esordio della scienza moderna rispetto alla scienza pregalileiana, tipicamente rispetto a quella aristotelica, fondata sul potere unificante del logos. La scienza moderna, invece di tacere di ciò che esce dalla portata del logos, parla - assumendosene il rischio - anche di ciò di cui non sa molto. Parla delle cose, ignorandone l'essenziale, cioè l'essenza. La filosofia logocentrica, invece, non lascia nulla di non detto. ça parle, direbbe di lei Lacan, magari senza sapere di cosa sta parlando. L'alternativa completezza/incompletezza, che Wittgenstein ha vissuto sulla propria pelle, facendo di lui il simbolo della transizione tra antico e moderno, porta con sé un'altra distinzione, fondamentale per comprendere la posizione pratica, persino politica, della modernità. Se il sapere è completo, che ne è dell'innovazione? Se il sapere è completo non esiste innovazione. Il sapere è scritto tutto come dottrina nel libro sacro, gestito da presbiteri. Non c'è nulla di concettualmente nuovo da scrivervi. Fondamentalmente il sapere completo si legge dove è già scritto. Il sapere completo non progredisce, allora? Progredisce, sì, ma da dentro, per accrescimento dei dettagli - aumentano le foglie ma l'albero rimane identico. Aumenta la quantità di sapere, ma la qualità del sapere non si diversifica. Il paradigma del sapere completo è la classificazione tassonomica di Linneo. Il metodo del sapere antico è il commento del libro, che per via ermeneutica aumenta autoreferenzialmente il numero delle pagine, ma lascia inalterata la suddivisione in capitoli. Tutt'altro discorso se il sapere è incompleto. Non potendosi scrivere tutto, l'innovazione viene in primo piano. In regime di incompletezza epistemica si danno "rivoluzioni scientifiche" - non necessariamente improvvise, come vorrebbe far intendere il termine coniato da Kuhn - che riscrivono il libro ex novo. Esempi paradigmatici sono: la rivoluzione copernicana, quella darwiniana, quella quantistica. Freud un po' narcisisticamente, ma senza sbagliare di molto, vi annoverava anche la rivoluzione psicanalitica (questa sì relativamente improvvisa). Le rivoluzioni epistemiche non nascono dal commento del sapere precedente, né seguono un metodo prestabilito, come voleva farci credere Heidegger (cfr. L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti). Le novità epistemiche emergono dalla speculazione congetturale, individuale o collettiva, intorno a nuove possibilità di verità. (Spesso e in modo caratteristico sono accompagnate da forti resistenze contrarie anche da parte chi le va elaborando, non solo di chi dovrà recepirle, mandando in soffitta le vecchie concezioni). Si tratta di nuove configurazioni di sapere che ridistribuiscono i rapporti tra verità e falsità - questa intesa a sua volta come minore verità. Il sapere incompleto non potrà mai, pertanto, essere codificato in Una dottrina, in formato standard. I presbiteri scambiano erroneamente per relativismo questa impossibilità logica. Poveri presbiteri! In epoca scientifica i presbiteri - scribi e farisei a servizio del libro e della morale corrente - potrebbero andare in pensione, se non li mantenessero in attività le forme conservatrici del potere a difesa dei vecchi ideali di convivenza: scuole e accademie. C'è una conseguenza etica dell'incompletezza epistemica, valida per la modernità, che per l'antichità, dove vigeva la completezza logocentrica, ovviamente non valeva: non esiste più la morale categorica, nè la sua contropartita politica: la monarchia assoluta, che oggi in Europa sopravvive solo in Vaticano come fossile epistemico. Ma torniamo a Wittgenstein. La specificità cartesiana del secondo Wittgenstein emerge chiaramente nelle Ricerche filosofiche. Centrale a questo proposito è la nozione di "gioco linguistico". Propongo qui l'analisi che Rovatti ne fa nel numero 337 di "aut aut" nel saggio Il gioco di Wittgenstein, che trovo ammirevole in quanto riesce a scomporre la nozione di gioco linguistico, apparentemente logocentrica - nel senso che mette al centro della riflessione il linguaggio - senza convocare il logocentrismo, cioè la completezza di essere e parlare. Il secondo Wittgenstein è cartesiano nel dimostrare di saper lavorare con la propria ignoranza, come sa fare qualunque buon matematico (e qualche psicanalista non scolastico). Il matematico non sa cosa sia un differenziale ma ne inventa il calcolo, Leibniz per esempio, o non sa cosa sia un insieme, ma ne fa la teoria, Cantor per esempio. Wittgenstein non sa cosa sia un gioco. Non lo definisce. Però ne immagina tanti, di giochi, ognuno veicolante una caratteristica antropologia, tipica di una particolare situazione intersoggettiva. In effetti, la nozione di gioco è non categorica. Esistono tanti giochi, non tutti riconducibili a un gioco unico. (Wittgenstein opera in regime di incompletezza epistemica - ricorda!) Wittgenstein non lo dice così, ma argomenta intorno ai paradossi del "seguire una regola" e del "linguaggio privato". Non mi puoi convincere che per sommare 68 a 57, ottenendo il risultato 125, tu abbia seguito le regole dell'aritmetica che conosco anch'io. Nulla mi impedisce di pensare che tu segua una tua aritmetica "privata", che coincide con la mia finché i risultati della somma sono inferiori o uguali a 125, altrimenti sono 0. Insomma, una regola ha in sè qualcosa di indeterministico, che le impedisce di essere individuata in modo univoco e universale. Ciò pone un problema pratico. Come si può, allora, definire un gioco, e soprattutto come lo si può giocare, se le sue regole, anche quelle apparentemente solo sintattiche, come quelle degli scacchi, non sono deterministicamente riconoscibili? Come si può iniziare il gioco psicanalitico, se la sua regola fondamentale non è determinabile e non può essere seguita in modo sicuro, in modo tale che l'analista possa, in modo altrettanto sicuro, determinare le deviazioni dalla regola, così importanti per l'analisi del transfert? Cosa prescrivo al paziente? "Comunichi tutto", come proponeva Freud? O "dica una cosa qualunque", come preferiva Lacan? E non parliamo di regole etiche. Esisterebbe un'etica indeterministica? Più che par provision, come suggeriva Cartesio? Provvisoria addirittura nel suo evolvere oltre che nel suo porsi? E come giudicare le azioni umane se sono essenzialmente indeterminate? Qui siamo in piena incompletezza epistemica. L'indeterminismo, che - faccio espressamente notare - non esclude l'applicazione meccanica della regola, ci porta in pieno discorso scientifico moderno: il meccanicismo non deterministico vale, infatti, tanto in meccanica quantistica quanto nell'inconscio freudiano. Si tratta di un meccanicismo debolmente eziologico, dove, a differenza di quello classico, eziologicamente forte, in cui la causa produce immediatamente l'effetto, entra in gioco - è il caso di dire così - il tempo. In un sistema meccanico indeterministico gli effetti non sono immediati, anche quando sono automatici. Occorre un certo tempo per "venire a sapere" se in un automa non deterministico un certo effetto si è prodotto oppure no. Se lancio una moneta, devo aspettare in media un lancio per sapere se è uscita testa. Se lancio un dado, devo aspettare in media cinque lanci per sapere se è uscito l'uno. Il tempo epistemico è l'effetto dell'indeterminismo, che a sua volta opera come fattore di incertezza epistemica. E con il dubbio torniamo a Cartesio. Questo è solo un primo abbozzo del discorso, che riconosce in Wittgenstein il filosofo della "chiarezza" scientifica, quella psicanalitica non esclusa. Wittgenstein inaugura un discorso filosofico aperto alla chiarezza moderna, gemellata all'incompletezza. Si tratta di una chiarezza "decostruente", che abbandona l'ideale della completezza al suo destino metafisico e si impegna a giocare con verità locali e parziali, non meno coinvolgenti per il soggetto delle grandi verità universali, predicate dal logocentrismo in tutte le sue forme (ivi compreso il logocentrismo psicanalitico dell'inconscio strutturato come un linguaggio). * La pagina è aperta agli approfondimenti di chi vuole scriverci sopra. Magari scrivendo la seconda parte non scritta di Essere e tempo con il bel titolo Sapere e tempo. O, in alternativa Etica e tempo, affrontando l'affascinante problema dell'etica indeterministica, dove non vigano regimi di intolleranza, alimentati di nascosto da superegoici sensi di colpa. E' un luogo comune che la scienza non abbia una sua etica. Forse è vero che la scienza non dispone di etiche categoriche, fondamentalmente religiose (quelle monoteiste) o perverse (quelle kantiane). Cosa pensare di un'etica dove il valore dell'atto non è immediatamente determinabile, ma richiede un tempo non piccolo per essere valutato? Sarebbe il soggetto responsabile anche di ciò che non sa di aver determinato? Ne ho trattato in forma preliminare in un mio articolo di circa dieci anni fa, intitolato L'etica all'epoca dell'inconscio, pubblicato su "Scibbolet", 5, 1998, pp. 130-147. Ulteriori suggerimenti e stimoli si trovano alla pagina In estrema sintesi, propongo questa chiave di lettura per "essere giusti con Wittgenstein". Wittgenstein esce dalla filosofia di Cartesio, evitando un doppio errore. Non commette né l'errore della fenomenologia né l'errore della filosofia analitica. La fenomenologia commette l'errore di usare o troppo o troppo poco il dubbio cartesiano. Husserl lo usa troppo, raddoppiandolo nell'epoché. Heidegger lo usa troppo poco, pretendendo arrivare immediatamente all'essere senza passare dal sapere (ma camuffando l'esperienza dell'esserci, che è un'esperienza epistemica, come esperienza immediata). Più banale l'errore della filosofia analitica che pretende scimmiottare la scienza, senza riconoscere il compito specifico della filosofia moderna, che è di controllare la bontà delle diverse elaborazioni scientifiche. Letto in positivo, il contributo alla Klarheit di Wittgenstein mi sembra un buon apporto sulla strada verso una scienza dell'ignoranza, verso un territorio, cioè, dove Freud aveva già piantato le sue incerte bandierine.
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SAPERE IN ESSERE | |||
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