LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE SAI DI NON SAPERE"

creata il 25 aprile 2009 aggiornata il 28 aprile 2009

 

 

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In un sito di psicanalisi non può mancare una pagina su Socrate.

Allora, meglio se ce ne sono due.

Perché? Forse perché Socrate ebbe momenti in cui funzionava da psicanalista con il proprio interlocutore? Tipicamente nel Simposio nei confronti di Alcibiade, come rileva anche Lacan nel seminario sul transfert.
Non solo. Qui vorrei sviluppare un altro lato della complessa figura del tafano ateniese – quello che ne fa l’emblema del filosofo che si prende cura dell’anima attraverso il logos e il dialogo e che è maggiormente pertinente al discorso psicanalitico.
Detto in breve, diversamente da Eraclito e da Parmenide, che sarebbero i fondatori del logocentrismo ontologico, Socrate si può considerare il fondatore del logocentrismo epistemico. La versione socratica del logocentrismo sarebbe, cioè, quella forma razionalista di pensiero, tipica della riflessione occidentale, culminante nella metafisica platonica dell’Idea, a sua volta fondata sulla rimozione del discorso sulla Natura.

Vediamo alcuni dettagli del percorso socratico.
Ai tempi di Socrate la scienza era quella dei pensatori Ionici, i Presocratici per antonomasia. La consegna di Socrate, in ciò eccelso sofista, sembra essere stata quella di sconfessare la scienza del suo tempo. Schiacciando 23 secoli di storia e proiettando con un gigantesco zoom storico Socrate e Husserl sullo stesso piano - operazione criticabile dal punto di vista accademico - notiamo una singolare simmetria tra le due figure. Quasi che Socrate fosse stato la prefigurazione di Husserl, che incaricava il fenomenologo di sconfessare la scienza positivista. (1) Simmetricamente, esercitando l'epoché, Husserl si pose come Socrate in una situazione di innaturale e sofistica ignoranza del proprio mondo e della scienza del proprio tempo.
Comunque sia, Socrate non sa nulla – o si atteggia a ignorante – della scienza della natura del tempo (Apologia, 19a-d). Probabilmente è solo un atteggiamento artificiale, questa ignoranza, simile alla vantata incapacità di certi intellettuali contemporanei a interagire con il computer o con Internet. Fa fino. Nel Fedone (97c-100d), tuttavia, troviamo un tratto dell'attualità di Socrate ancora più sorprendente. Socrate si dichiara deluso della dottrina anassagorea della mente che ordina tutto – dottrina per la quale si era dimostrato giovanilmente entusiasta, per non dire infatuato. (Archelao, suo maestro, sosteneva quella dottrina). Donde la delusione? Perché Anassagora non gli spiegava la “causa di tutto ciò che è”, “perché [una cosa] è così e perché non può essere altrimenti, allegando le ragioni del meglio, e cioè che per essa il meglio era essere così”. Ma oggi, dopo Hume, lo sappiamo. Aveva ragione Anassagora e torto Socrate. Sulla natura non si può tenere un discorso scientifico che sia eziologico. Tanto meno si può tenere un discorso “per il meglio”, che convoca immediatamente il punto di vista teologico del Divino Architetto e del Disegno Intelligente. Insomma, detto in termini fenomenologici, già ai suoi tempi Socrate sconfessava la scienza, perché non faceva posto alla causa, sotto forma di intenzionalità performativa. Perché la scienza - già allora - fuorcludeva il soggetto, come direbbero oggi i fenomenologi lacaniani. In ciò, nel suo specifico modo di resistere alla scienza, nel momento in cui si atteggia a difensore del soggetto, Socrate è decisamente attuale. Ancora oggi i fenomenologi resistono alla scienza in termini sostanzialmente equivalenti a quelli di Socrate, magari sognando di elaborare una filosofia come scienza rigorosa, che includa il soggetto stesso che la elabora.

Ma dimentichiamo i fenomenologi e loro affini. Quel che interessa alla psicanalisi è un altro Socrate, un Socrate meno attuale di quello fenomenologico, anzi decisamente inattuale, un Socrate (quasi) precartesiano. Cioè? Per spiegare cosa intendo con questa bizzarria storica, devo raccontare una storiella - una vera e propria storia clinica. La quale, come tutte le storie cliniche, non racconta la propria verità nel tempo del racconto, ma in un tempo storicamente secondo: quello della ricezione, il nostro, nel rispetto della freudiana Nachträglichkeit.

*
La storiella, che traduco liberamente dall’Apologia, ce la racconta Socrate per bocca di Platone (2).
Val la pena di ascoltarla fino in fondo.

Un giorno Cherofonte andò a Delfi e osò chiedere all’oracolo se ci fosse uno più sapiente di Socrate. La Pizia rispose negativamente. “Al mondo non c’è nessuno più sapiente di lui”. […] Udita la risposta riflettevo tra me e me: “Cosa mai vuol dire il dio, quando dice che sono il più sapiente? A cosa allude? Perché di mio non so né molto né poco se sono sapiente oppure no. Di certo non mente il dio, ché non gli sarebbe consentito” (3). Per tanto tempo non riuscii a capire cosa il dio intendesse dire. Alla fine di mala voglia intrapresi la seguente ricerca sulla faccenda.
Andai da uno ritenuto saggio. Pensavo così di smentire l’oracolo, ribattendo al suo responso: “Vedi, costui è più sapiente di me e tu dicevi che ero io”. Scrutandolo mentre mi parlava – non è necessario che ve ne riveli il nome, o Ateniesi; vi basti sapere che era un uomo politico – mi sembrava che fosse sapiente, come del resto appariva agli occhi di molti e pure suoi, mentre in realtà non lo era. Allora tentai di fargli capire che si credeva sapiente ma non lo era. Così divenni odioso a lui e a molti dei presenti. Sulla strada del ritorno pensavo tra me e me che certamente più sapiente di quell’uomo ero io, nel senso che probabilmente nessuno di noi due sapeva qualcosa di bello e di buono, ma lui pensava di saperlo e non lo sapeva, mentre io, che pure non sapevo, non credevo di saperlo. Mi sembrava, insomma, di essere per un nonnulla più sapiente di lui, perché non reputo di sapere quel che non so.
Andai allora da altri ritenuti ancora più sapienti e mi successe la stessa cosa, venendo in odio a loro e a molti altri (4). Ciononostante continuai diligentemente la mia ricerca, pur constatando con timore e tremore che venivo odiato da tutti. D’altra parte mi sembrava necessario tenere nel massimo conto le parole del dio e, sempre pensando al significato delle sue parole, mi recai da tutti coloro che avevano fama di sapere qualcosa. E, per il cane, cittadini ateniesi, vi devo dire la verità. La verità da me vissuta è questa: messi alla prova della parola del dio, i più famosi mi sembrarono i più miserevoli e gli altri, considerati da meno, più assennati di loro.
Ma devo raccontarvi tutte le peregrinazioni e le fatiche sostenute per persuadermi che la parola dell’oracolo restava inconfutabile.
Dopo i politici mi recai dai poeti, dagli autori di ditirambi, di tragedie e di altri poemi, quasi per cogliermi sul fatto come più ignorante di  loro (5). Presi in mano le loro poesie, quelle che mi sembravano le migliori, chiedendo loro cosa avessero voluto dire, magari imparavo qualcosa. Cittadini, mi vergogno di dire la verità! Ma tant’è, va detta tutta: gli altri ragionavano quasi meglio dei poeti sulle cose da questi poetate. In breve, constatai che i poeti non poetavano per un certo sapere ma per disposizione naturale o ispirazione, come gli indovini e gli oracoli, che dicono molte cose belle, ma non sanno quel che dicono (6). Lo stesso mi sembra accada ai poeti. Al tempo stesso compresi che i poeti credevano di essere più sapienti degli altri anche in tutto il resto per il solo fatto di poetare. Me ne partii anche da loro, convinto di essere meglio di loro per la stessa ragione dei politici.
Infine, andai dagli artisti e dagli artigiani, sapendo di non sapere quasi niente della loro arte, ma sapendo che li avrei trovati esperti di molte belle cose. E non mi ingannavo. Sapevano veramente quel che io non sapevo, In questo senso erano più sapienti di me. Se non ché, cittadini, anche loro, i bravi artigiani, mi sembrò che avessero lo stesso difetto dei poeti. Essendo esperti nella propria arte, ognuno di loro pretendeva di sapere benissimo anche altre cose più importanti – una dismisura che oscurava anche il loro specifico sapere. Tanto che, in nome dell’oracolo, mi chiedevo se preferissi restare così com’ero, né sapiente del loro sapere né ignorante della loro ignoranza, o di essere entrambe le cose ­– sapiente e ignorante – come loro. (7) A me stesso e all’oracolo risposi, allora,
che mi conveniva restare così com’ero.

Da tale ricerca, o Ateniesi, ricavai molte inimicizie, fierissime e gravissime, alle quali fecero seguito molte calunnie, tra cui paradossalmente la nomea di sapiente (8). Chi assisteva alle mie dispute, infatti, credeva che io sapessi le cose, la cui ignoranza contestavo ad altri. In verità, Ateniesi, sembra che il dio sia stato saggio. Con questo oracolo sembra dire che il sapere dell’uomo vale poco o nulla e questo chiaramente non lo dice di Socrate, ma si serve del mio nome, scelto ad esempio, come per dire: “Il più sapiente tra voi uomini è colui che, come Socrate, riconosce che il proprio sapere non ha  in verità alcun valore”.
Ecco perché ancor oggi vado in giro investigando, dietro la parola del dio,  se ci sia qualcuno tra cittadini o stranieri che possa ritenere sapiente. E quando non mi sembra che lo sia, vengo in aiuto al dio, dimostrando che non lo è. Preso come sono da questa faccenda, non ho avuto modo di fare cosa utile né per la mia città né per la mia famiglia e vivo miseramente per servire il dio.

*

Dopo la lettura di questo passo si può ancora sostenere - come sostengo - che Socrate fu un precursore di Cartesio?
In parte sì e in parte no.
No, perché in Socrate manca il discorso sulla natura, cioè sulla res extensa. Sì, perché tutta la cogitazione socratica si arrovella intorno alla res cogitans. La domanda che sostiene il discorso di Socrate è, infatti, “chi è il sophos”? Chi pensa, se pensa? Da dove viene il suo sapere? Nel passo appena letto il 2% delle parole è rappresentato dalla parola “sapiente”, sophos. Non è poco. Possiamo, allora, affermare che Socrate fu semicartesiano?
Anche questa affermazione va presa con un granellino di sale.
Certo, Socrate fu uno dei rari filosofi epistemici dell’antichità, che per solito è ontologica, addirittura parmenidea - l'essere è e il non essere non è. Gli accademici parlano della filosofia socratica in termini di intellettualismo etico. Non è del tutto sbagliato. Il processo a Socrate dimostra che l’uomo fu un intellettuale dalla forte passione etica e civile. Ma non si può affermare che con Socrate vide l’alba il soggetto della scienza a 2000 anni di distanza dall’effettiva nascita.
Lo dico per due ordini di ragioni.

Unum scio, nil scire. Socrate non enunciò mai né questa formula epistemica, che di solito gli si attribuisce, né altre formule. La formula citata non è di Socrate ma forse del retore Isocrate o forse dello stoico Filone di Megara, inventore dell’implicazione materiale. Quella formula non è socratica perché è categorica. Afferma che c’è un ben preciso unum di cui si sa che è l'unico sapere, mentre l’ignoranza di Socrate è diffusa e riguarda tutto lo scibile che non si può unificare: il sapere del bene, del bello, del vero ecc. Tuttavia, l’impianto della procedura epistemica socratica, attraverso cui Socrate contestava il falso sapere dei propri interlocutori (élenchos), porta lì, cioè ad affermare il valore positivo dell’ignoranza. Non a caso il messaggio socratico è raccolto dal poeta Lucrezio che, partendo da Democrito ed Epicuro, prepara la dialettica positiva del soggetto della scienza. Leggiamo nel libro IV del De rerum natura la versione antiscettica del nihil scire:

Denique, nihil scire si quis putat, id quoque nescit,
an sciri possit; quondam scire fatetur.
[…] Unde sciat quid sit scire et nescire vicissim,
notitiam veri quae res falsique crearit (Libro IV, vv. 469-476).
Se qualcuno ritiene che nulla si sappia, anche questo ignora
se si possa sapere, poiché afferma di non sapere nulla.
[…] Donde sa cosa siano “sapere” e al contrario “non sapere”,
che cosa abbia creato l’immagine mentale di “vero” e di “falso”.

Non si può negare che in Socrate ci sia la pratica quotidiana dell’ignoranza. Ma non si può neppure affermare che ci sia la teoria che permetta di passare dall’ignoranza al sapere (unum scio). Il tafano ateniese non costruisce un’epistemologia del vero plausibile o congetturale. Si limita a distruggere le false epistemologie che incontra per le strade di Atene. Non parla Socrate, per esempio, di relativismo della verità. In realtà, sotto le spoglie scettiche, Socrate resta un metafisico prekantiano. Sogna la verità assoluta benché irraggiungibile. Il suo intellettualismo etico (“se conosci il bene, lo fai”) non conosce incertezze, se non nella forma stessa del condizionale (“se conosci il bene”). Il “provvisorio” cartesiano non riceve in Socrate dignità di statuto morale. Analogamente, l'ignoranza - espressione epistemica del provvisorio - non diventa generatrice di sapere. In Socrate non c'è traccia del teorema cartesiano: "se non so, allora so".

C’è, poi, un secondo ordine di considerazioni per cui possiamo tranquillamente affermare che Socrate filosofava in modo epistemico sì, ma non moderno. Socrate era un logocentrico come tutti gli antichi e molti moderni. I suoi sofistici elenchi, attraverso cui contestava il falso sapere di chi credeva di sapere, erano esercizi, spesso contorsioni, sul significato del significante linguistico. Da buon fenomenologo Socrate cercava il senso delle parole e l'essenza delle cose (9). I suoi arzigogoli rimanevano interni alla pars destruens della filosofia epistemica. Non approdavano mai a una pars construens. Socrate non inaugurò l'uso di ipotesi di lavoro da sottoporre a verifica o falsificazione. Socrate in fondo fu e rimase per tutta la vita uno scettico, quasi pirroniano. Chi ad Atene lo prendeva per sofista non sbagliava di molto. In ultima analisi, per Socrate il sapere era fossilizzato nel significante linguistico, come la protoformica nell'ambra di qualche decina di milioni di anni fa. Estrarre sapere dal significante rimaneva per lui l’unica pratica filosofica possibile - il gioco linguistico più gettonato, ben prima che Wittgenstein lo chiamasse così. Per ciò stesso la pratica socratica era condannata a rimanere confinata per sempre nel circolo logocentrico (altrimenti detto circolo ermeneutico, dove non esistono fatti ma solo interpretazioni). Niente preannuncia in Socrate la rivoluzione scientifica di venti secoli dopo, secondo la quale il sapere è nel reale e non nel linguaggio, nello strumento tecnico e non nel libro sacro, nella costruzione epistemica collettiva (Das epistemische Ding) e non nell'elucubrazione filosofica del singolo. Socrate rimase un praticien dell’eresia. Proponeva interpretazioni illegali del Verbo stabilito dall'autorità e accettato dalla collettività, che però lasciavano il tempo che trovavano. In un certo senso, la pratica socratica rimase sterile, come la pratica logocentrica lacaniana. Alla fine Socrate fu messo a morte dalla sua intollerante città - probabilmente come l’altro grande sofista e matematico, Ippia di Elide, inventore della trattrice, la curva non algebrica che rettifica il cerchio - perché nessuno capiva il senso della sua solitaria e eterodossa ricerca, che introduceva qualcosa di unheimlich nel comune buon senso. Ma, tutto sommato, Socrate fu sopravvalutato.

*
Protetti da questa cintura di considerazioni cautelative, sostanzialmente negative, possiamo finalmente avviare un discorso positivo intorno a Socrate. Dobbiamo riconoscere che – a modo suo – Socrate ci sapeva fare con il sapere. È giusta, allora, la diagnosi lacaniana di isteria. Da isterico Socrate produceva sapere. Da isterico Socrate forzava il soggetto – il malcapitato interlocutore, incontrato per caso nelle vie di Atene, che incappava nei suoi funanbolici giochi linguistici – a produrre sapere all'interno di un gioco intersoggettivo, che non sarà più ripreso prima di Freud: il gioco dei significanti. A pieno titolo Socrate rientra nel matema lacaniano del discorso isterico, dove il soggetto è in posizione di agente e il sapere ne è il prodotto. Tipico il caso, registrato da Platone, dello schiavo Menone, dal cui non sapere l'ostetrico Socrate estrae l'algoritmo di duplicazione del quadrato (10). Oggi il soggetto della scienza ha appreso molto bene a lavorare con i significanti della propria ignoranza. Non sa cos’è un insieme, ma produce una magnifica teoria degli insiemi. Non sa cos’è una specie, ma produce una finora incontrovertibile teoria dell’evoluzione delle specie. Da qui una certa vaga rassomiglianza tra il modo isterico di procedere di Socrate e quello scientifico di Cartesio e di Freud, il primo più importuno (ma solo di poco) di quello dei secondi. (Cfr. il mio Scienza come isteria, Campanotto, Udine 2005, Wissenschaft als Hysterie, Turia + Kant, Wien 2002).

Per Cartesio il dubbio era una forma positiva e feconda di non sapere, da cui si poteva trarre un sapere. Il dubbio cartesiano, infatti, è una variante del terzo escluso in forma epistemica. “Dubito” significa che non so se so o non so. Ma in entrambi i casi, sia che sappia, sia che non sappia, qualcosa so. Nel peggiore dei casi – e se non ci sono altre alternative – so che non so.

Per Freud il sapere inconscio era un sapere che il soggetto non sa di sapere ancora. Era un sapere che il soggetto potrà acquisire attraverso l’analisi, cioè attraverso la procedura tecnica, inventata da Freud e in gran parte logocentrica, di scomporre in elementi costitutivi – i significanti – le falsità cui il soggetto, sempre più radicandosi nella volontà di ignorare, va incontro nella vita: falsi amori, falsi godimenti, passi falsi o lapsus.

Per Socrate, a differenza di Cartesio e Freud, il sapere restava un gioco fine a se stesso, inutile sia per il soggetto individuale sia per il soggetto colletivo. In fondo - e concludo - il passo falso che Socrate non analizzò mai – forse perché lo faceva godere troppo e perciò preservava la sua ignoranza – fu uno solo. Socrate si illudeva che per superare l’ignoranza propria e altrui, del singolo e della collettività, bastasse debellare con qualche gioco di parole la congenita volontà di ignoranza dell’uomo. Socrate nacque isterico, ma non morì psicanalista. Non ci sapeva fare con le resistenze alla scienza, le proprie comprese. (11) Due secoli fa, l’isteria commise analogo errore. Si illuse di debellare la volontà di ignoranza del medico, presentandogli falsi sintomi, non elencati nei sacri testi di medicina. Fece un buco nell'acqua. Oggi nessuno parla più né di isteria né di Socrate, tranne qualche psicanalista.

Note

(1) “La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente, di essere cioè una ‘psicologia descrittiva’ o di ritornare alle ‘cose stesse’, era la sconfessione (désaveu) della scienza”. (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione (1945), trad. A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 16.) La fallacia fenomenologica è enorme. Non avendo esperienza diretta di pratica scientifica, il fondatore della fenomenologia confondeva la scienza con la versione che al suo tempo andava per la maggiore: il positivismo. Oggi, per fortuna, il positivismo è decaduto. Sopravvive come fossile in alcune forme di cognitivismo. Pertanto, si può facilmente sconfessarlo rimanendo all’interno del discorso scientifico. (Ma Merleau-Ponty non lo sapeva. Non voleva saperlo, forse. Di certo il suo analfabetismo scientifico e la sua resistenza alla scienza erano superiori a quelli di Husserl, che almeno si era fatto le ossa come allievo del matematico Weierstrass). (Torna su).

(2) In forma succinta l’aneddoto è riportato anche nell’Apologia di Socrate di Senofonte (§ 14) e in Diogene Laerzio (II, 37). (Torna su)

(3) L’idea cartesiana del dio che non inganna ha illustri precedenti: Socrate, Paolo (A Tito 1,2; A Timoteo, 2,13). (Torna su)

(4) L’analista dovrebbe saperlo dalla propria pratica clinica. Se nelle sedute preliminari incautamente si azzarda a far capire al potenziale analizzante che si sta ingannando su quel che crede di sapere, la reazione negativa scatta immediatamente, a volte in modo selvaggio, a volte in modo paranoico (paranoia postanalitica, secondo Lacan). Guai a intaccare la volontà di ignoranza della gente! Vulgus vult decipi. Le manipolazioni epistemiche sulla volontà di ignoranza suscitano di regola l’odio, perché potrebbero rivelare la verità. Molesta veritas si quidam ex ea odium nascitur (Cicerone). (Torna su).

(5) Ironia socratica. Socrate sta parlando ai propri accusatori – Meleto, Anito, Licone – di loro, dando loro degli ignoranti. Meleto, principale accusatore di Socrate, era rappresentante della lobby dei poeti, come Anito lo era di quella degli artisti e dei politici (e forse fu istigatore di Meleto nel processo a Socrate), mentre Licone rappresentava gli oratori. Ma i giudici non giudicarono in modo ironico. Praticamente, rivelando agli Ateniesi la propria volontà di ignoranza, Socrate si autocondannò. (Torna su)

(6) La psicanalisi è diventata odiosa al mondo affermando di ogni essere parlante che chi parla è ignorante: non sa quel che dice. (Torna su)

(7) La logica epistemica di Socrate non contempla la terza possibilità: essere un po’ ignorante e un po’ sapiente al tempo stesso, come succede al soggetto dell’inconscio che non sa di sapere quel che sa. (Torna su)

(8) Cosa sogna l’oca? Il granoturco. Cosa sogna l’ignorante? Un maestro che lo mantenga nell’ignoranza, precisamente un falso maestro. E quando smette di sognare, l’ignorante lo trova, il maestro che fa per lui. Questo è particolarmente vero in politica. Il 30% degli italiani si lamenta di Berlusconi. Ma Berlusconi esiste perché l’hanno voluto gli italiani. I berlusconiani precedono Berlusconi, come l’effetto precede la causa o come il soggetto collettivo precede l’individuale. (Torna su)

(9) "Che cos'è la fenomenologia? [...] La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio l'essenza della percezione e quella della coscienza" (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione (1945), trad. A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 15). Tanto basta per dire che la fenomenologia non è scienza. La scienza non è il discorso delle essenze. (Torna su)

(10) La teoria platonica della conoscenza come reminiscenza è la variante accademica, consolidata e fissata nel mondo delle idee innate, della pratica isterica di Socrate. Le idee platoniche stanno nell'Iperuranio, ma i concetti socratici stanno qui in terra, precisamente nel significante. La maieutica socratica è l'arte logocentrica di estrarre concetti dai significanti. (Torna su)

(11) Come già detto, le resistenze di Socrate furono dirette contro il discorso scientifico. Sono queste anche le resistenze del discorso filosofico, inteso alla Lacan come discorso del padrone. O meglio, come discorso del servo che si conforma al discorso del padrone. Socrate fu un filosofo anomalo. Non volle servire alcun padrone, rimanendo fedele da filosofo solo alle Leggi. Questo è impossibile senza cicuta. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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