LA PSICANALISI SECONDO
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"TU PUOI SAPERE, SE CAMBI PUNTO DI VISTA"
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Che cos’è la variabilità? La tesi di questa pagina è semplice e difficilmente confutabile; forse per questo motivo è addirittura poco scientifica. Parto dal presupposto che condizione necessaria, benché ovviamente non sufficiente, perché ci sia della scienza è che nel discorso supposto scientifico trovi posto la nozione di variabilità. Detto alla rovescia: là dove comanda l’Uno, tipicamente nelle religioni e nei totalitarismi politici, lì non c’è scienza. Questa condizione è più debole dell’altra condizione di scientificità, anch’essa necessaria ma non sufficiente, individuata da Popper: la falsificabilità; ossia, là dove tutto deve essere confermato e nulla può essere confutato, ancora nelle dottrine religiose e nelle ideologie politiche, lì non si dà scienza. La maggiore debolezza, quindi la maggiore generalità della mia tesi, è evidente dal punto di vista epistemico: essa ammette tutti i valori di verità, dal vero al falso, mentre la tesi di Popper, restringe l’attenzione e l’operatività a un solo valore di verità, il falso. (0) Contro le mie attitudini e capacità intellettuali, in quanto segue tenterò un’analisi storica della tesi più debole, supponendo note le argomentazioni di Popper a proposito della tesi più forte. Il requisito della variabilità distingue agevolmente tra due saperi: l’antico e il moderno. Non conoscendo la nozione di variabilità – non avendo le lingue antiche neppure il sostantivo per indicarla – il sapere antico non è scientifico. “Variabile” in latino si dice con termini antropomorfi come “mutabile” e “incostante”; in greco il termine più vicino a “variabilità” è akatastasia, “incostanza”, per non dire “instabilità”, anche in senso politico, fino a “rivoluzione”. Il fenomeno è curioso e apparentemente incredibile. Non osservavano forse fenomeni variabili gli antichi? Non vedevano che i pianeti variavano di posizione in cielo? Sì, li osservavano; vedevano bene che cambiavano posizione, perciò li personificavano come “vagabondi” o “erranti”, appunto planétoi. Il punto filosoficamente rilevante, che mi preme far notare in questa situazione, è che difficilmente dall’empiria si può estrarre un concetto, fosse pure dall’empiria più ripetitiva e più insistita, come nel citato caso astronomico. Il concetto, infatti, non deriva dall’empirico ma dal concettuale. I concetti sono a priori rispetto all’esperienza e si dà il caso che gli a priori degli antichi fossero diversi dai nostri, come tento di mostrare. Per la precisione, uno solo era l’antico a priori, che non è più il nostro: era l’Uno, il top della non variabilità. In linguaggio scientifico, Uno significa entropia zero, essendo il logaritmo di 1 pari a 0. Uno o variabilità zero, insomma. Poiché il logaritmo della variabilità si può interpretare come informazione (nel caso più banale il logaritmo di un numero reale informa sul suo numero di cifre), si può dire che il sapere antico, essendo all’ombra dell’Uno, tendeva ad essere un sapere senza informazione. Ombra dell’Uno era ai tempi di Zeus e Atena la molteplicità (ta pollà), che era variabilità indeterminata, cioè senza termine, comunque da ricondurre all’Uno per essere riconosciuta, per esempio come infinito. (È questa, come si sa, la soluzione religiosa medievale). L’unificazione doveva poi realizzarsi all’interno di una grande narrazione eziologica, condotta nel nome del principio metafisico della ragion sufficiente, per cui ogni effetto ha una causa, che è a sua volta effetto di una causa a monte ecc.; anticamente, via via risalendo dall’effetto alla causa e dalla causa alla metacausa, si arrivava alla causa prima o motore immobile o Uno, che cancellava ogni variabilità apparente del mondo. (Per quanto riguarda la psicanalisi risulta evidente che l’impostazione eziologica, tipica per esempio della metapsicologia freudiana, preclude l’accesso a ogni forma di variabilità spontanea dei fenomeni psichici, quindi di scientificità.) Nel Filebo Platone chiarisce bene la provenienza dell’handicap del pensiero greco a pensare la variabilità: la prevalenza, per non dire il predominio, sulla mentalità greca della nozione di misura. Per il greco non esistevano variabili da osservare ma grandezze da determinare. Determinare per il greco significava misurare; misurare, poi, significava fissare un’unità di misura e stabilire quante volte l’unità di misura, o un suo sottomultiplo, rientrava nella grandezza da misurare. La grandezza che così si misurava risultava in pari tempo determinata. Come racconta Platone nel Filebo, ciò che si misura è una cosa finita, per la quale si possono stabilire le nozione metriche di “uguale” o di “doppio”; ciò che non si misura, perché è sempre “più grande” o e sempre “meno grande”, è una cosa indeterminata o infinita, nel senso di senza limiti (apeiron) prima concettuali che fisici (cfr. Filebo, 24, 25). Non entro nella trattazione della fallacia, che riduce l’infinito all’illimitato, al senza inizio o al senza fine. L’esempio di infinito limitato fu effettivamente prodotto da Spinoza un paio di millenni dopo Platone: due cerchi eccentrici contenuti l’uno nell’altro presentano un insieme infinito di distanze limitate, con un minimo all’inizio e un massimo alla fine del loro intervallo di variabilità. Qui mi interessa, invece, stabilire che a monte della fallacia, che identifica l’infinito all’illimitato, ci sta l’impossibilità per il pensiero greco di considerare la variabilità in quanto tale, esistente prima di ogni possibile misura di valori. (1) Per noi moderni prima delle diverse misure viene la variabilità in se stessa, per esempio la variabilità dei numeri reali di un certo intervallo, entro cui cadono i valori delle misure effettive. Ecco un termine decisivo che rende concreto il discorso: “intervallo”, sottointeso per noi “di variabilità”. La nozione topologica di intervallo di variabilità mancava al greco antico; di conseguenza venne a mancargli la possibilità di pensare la topologia. Nei suoi Elementi Euclide non distingueva tra rette e segmenti di retta. Per lui esistevano solo parti limitate di retta (euthéia peperasméne), tuttavia indefinitamente prolungabili, e punti su di esse. L’intervallo esisteva solo come distanza effettivamente misurata: per esempio, il diàstema, l’intervallo tonale in musica. Non è disquisizione da poco. Senza la nozione di intervallo generico, precedente ogni misura, è impossibile pensare non solo la topologia, intesa come la scienza delle relazioni di vicinanza, ma addirittura il moto, inteso come trasformazione topologica di variabili spaziali in altre variabili spaziali, dove la trasformazione è tale che punti vicini di una variabile, al tempo t', vengono portati in punti vicini di un’altra variabile, al tempo t". Senza intervalli piccoli a piacere la continuità delle grandezze in generale, in particolare la continuità delle grandezze in moto, era impensabile. Impensabile in particolare risultava la nozione di velocità istantanea come tangente alla traiettoria. Ciononostante, grazie a una performance matematica di altissimo livello, dovuta a Eudosso di Cnido, i greci riuscirono a immaginare una particolarissima forma di continuità: la proporzionalità tra grandezze, utilizzando solo i numeri interi (v. Elementi, libro V, def. 5). Un’eccezione, che, tuttavia, fece più male che bene al pensiero matematico, perché congelò il pensiero geometrico – o della misura della terra – nell’ambito della proporzionalità (linearità), inibendo fino al XVIII secolo la nascita del concetto di funzione o di applicazione tra variabili, concetto che finalmente fu abbozzato da Eulero nel campo dei numeri complessi. Certo è che prima di Eulero qualcosa della variabilità dovette balenare nella mente di Cartesio, quando metteva in equazioni la geometria euclidea, passando indifferentemente dalle potenze prime, alle seconde e alle terze della variabile x, cioè dalle linee alle aree e ai volumi, lasciando cadere il significato cadere di misura. Senza variabili non si scrivono equazioni né integrali né differenziali; senza variabili non avremmo avuto Newton, Maxwell, Einstein, Scrhödinger e tanti altri. Le equazioni sono l’archivio del sapere moderno, fondato su variabili. Ma la storia non finisce qui. I greci antichi ebbero tra loro un furbetto dell’agorà. Si chiamava Zenone ed era un terrone della Magna Grecia, precisamente di Elea, l’odierna Velia, nel parco del Cilento, emigrato ad Atene come "vu cumpra'" dell'ontologia. Conoscendo la debolezza mentale dei greci sulla variabilità, inventò i paradossi del moto; il suo intento era di imporre la dottrina del proprio maestro-amante Parmenide, cioè la dottrina ontologica dell’essere che è com’è e non cambia, una dottrina chiaramente conservatrice che andava troppo bene al tiranno del momento. I paradossi del moto – dalla freccia ferma ad Achille e la tartaruga – ebbero un risultato nefasto e superiore alle attese del suddetto furbetto: grazie al loro pseudoragionare, l’inibizione a pensare la variabilità si prolungò nella cultura occidentale per un paio di millenni; grazie a loro la dottrina ontologica passò nel buon senso, acquisendo vieppiù incontrovertibilità; grazie a loro ancora oggi noi dobbiamo sorbirci rigurgiti ontologici venduti sulle bancarelle filosofiche sotto il nome di nuovo (sic) realismo. Pazienza. Non è questo il luogo per entrare in polemica con il discorso – originariamente servile ¬ dell’ontologia. (2) Mi interessa di più approfondire l’analisi dell’antica inibizione a pensare la variabilità, quella del moto in particolare, che ritardò di duemila anni la nascita della scienza, in particolare della regina di tutte le scienze: la meccanica. Il mio interesse non è puramente storico. Pesca nell'attualità. Qualcosa di quell’antica inibizione del pensiero perdura tuttora nel moderno umanesimo, dal quale sarebbe opportuno liberarsi, volendo accedere a una qualche forma di scientificità psicanalitica. Lo dico in forma di pillola da “bigino” volutamente imprecisa e sommaria: agli antichi greci mancava la nozione di tangente a una curva. Per tale carenza gli antichi non arrivarono mai a definire la nozione di velocità istantanea e, quindi, a inaugurare il discorso della meccanica. Ancora prima, gli antichi non arrivarono a concepire la variabilità del moto, che si traduce nella variabilità della tangente. Nella Fisica di Aristotele non compare il pendolo. Aristotele fa un discorso finalistico: ogni mobile si muove perché tende a tornare al proprio luogo naturale, dove si ferma “acquietandosi”. Il pendolo tende certo a tornare al proprio luogo naturale di quiete – la verticale – ma non vi si ferma; non si “acquieta” mai; una volta raggiunta la posizione di equilibrio, se ne allontana. Galilei tratta esaurientemente il caso del pendolo nella Seconda giornata del suo Dialogo dei massimi sistemi (v. Galileo Galilei Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 588). Il pendolo rappresenta il caso di variabilità del moto che gli antichi non riuscivano neppure a concepire, non avendo la nozione di variabile. Dopo Galilei lo stato cinematico “naturale” di un corpo non è la quiete, ma il moto rettilineo uniforme, di cui la quiete è un caso particolare. (Sorvolo sulle implicazioni controontologiche – precisamente antizenoniane – di questo assunto scientifico.) Al posto della definizione matematica, che si trova in tutti i manuali di analisi matematica, do quella filosofica, che è qui più rilevante ed è in genere sottovalutata. La tangente a una curva è un’anticipazione – parziale – di sapere. La tangente a una curva in un punto “predice” in che direzione andrebbe il punto mobile che la percorre, se continuasse di moto rettilineo uniforme… per la tangente. Essendo un’anticipazione di sapere, la nozione di tangente era essenzialmente inaccessibile agli antichi greci, i quali non pensavano a partire dal sapere ma dall’essere. L’anticipazione tipica dei greci antichi era ontologica, non epistemica: prima viene l’essere, poi il sapere, che vi si deve adeguare. L’antico criterio di verità è l’adeguamento dell’intelletto alla cosa. Per pensare il sapere prima dell’essere – senza presupposti adattativi – bisogna aspettare il soggetto cartesiano, che prima cogita e poi è. Una rivoluzione tuttora mal compresa, tale e tanto fu (e tuttora purtroppo persiste) l’influsso ontologico di Zenone, il terapeuta, thérapon, cioè servo-amante di Parmenide. (3) Vale in particolare la pena soffermarsi un attimo sull’argomento zenoniano della freccia ferma, per sviluppare un’ovvia considerazione autoreferenziale, che proprio grazie all’autoreferenzialità dimostra a pieno il carattere ontologico del sofisma zenoniano, essendo l’ontologia il luogo di elezione dell’autoreferenzialità. La freccia rappresenta intuitivamente la tangente alla traiettoria. Se non c’è traiettoria non c’è tangente, quindi non c’è freccia. Zenone elimina dal discorso la freccia, cioè la tangente del moto, nel momento in cui pone in essere la freccia che dovrebbe volare lungo la traiettoria. Così afferma l’essere (della freccia) che non è (che non c’è). La freccia del tempo non esiste, quindi l’essere esiste ma è nulla: è puro vuoto dell’esserci. Zenone anticipa Heidegger in fatto di nichilismo. Sulla freccia del tempo ci sarebbe poi da sviluppare tutto il discorso della termodinamica sull’aumento irreversibile dell’entropia, che lascio per ora solo indicato come possibilità, per tornare al tema dell’antica inibizione intellettuale. Un dettaglio apparentemente trascurabile dice tutta la resistenza dell’antico greco a pensare l’anticipazione epistemica – resistenza dovuta allo sciagurato influsso zenoniano, il quale non consente di vedere le simmetrie intrinseche al sapere. Qual è la simmetria intrinseca alla costruzione della tangente? Nel caso bidimensionale lo rivela la proposizione 17 del libro III degli Elementi di Euclide: le tangenti al cerchio a partire da un punto sono sempre due e simmetriche rispetto all’asse che unisce il punto dato al cerchio. Due è il requisito minimo perché ci sia simmetria e la variabilità abbia finalmente inizio. Ma, essendo filosoficamente fissato all’Uno (vedi V postulato sull’unicità della parallela), Euclide non riconobbe valore alla variabilità e nel suo disegno presentò solo una tangente; Figura euclidea mancante della seconda tangente al cerchio da un punto Addirittura, nell’enunciazione del problema Euclide chiese di costruire una tangente al cerchio, non tutte le tangenti al cerchio da un punto. (L’uso del quantificatore universale tutti è rarissimo negli Elementi.) Per dire retta tangente Euclide usava il participio presente passivo (grammé ephaptoméne) di ephapto, che significa “attacco”, “tocco” ma anche “comprendo con la mente”. Evidentemente Euclide non aveva compreso il significato meccanico della tangente. Come mi fa notare Gustavo Micheletti nell’introduzione al suo Lo sguardo e la prospettiva (Clinamen, Firenze 2009), il filosofo ontologico cerca il senso, non cerca simmetrie. A partire dall’illusione di essere al centro del mondo – in base alla constatazione tanto empirica quanto immaginaria di essere al centro della circonferenza del proprio orizzonte – il filosofo ontologico suppone che il mondo abbia un senso e si interroga su di esso; non si interroga sull’esistenza di simmetrie; per esempio, non si interroga sulla simmetria tra il sasso che cade sulla Terra e la Luna che circumnaviga la Terra. L’uomo di scienza – Newton – si interroga, invece, sulle simmetrie. Le simmetrie sono l’inizio della variabilità; nel caso più semplice della leva archimedea di primo genere gli estremi sono simmetrici rispetto al fulcro; allora, la leva sta in equilibrio, se a bracci uguali sono sospesi pesi uguali; a livello minimale la simmetria coinvolge almeno due punti: +x e –x, simmetrici rispetto allo 0. Ecco, allora, la risposta alla domanda che cos’è la variabilità: è simmetria. La variabilità comincia dalla simmetria e da lì comincia il discorso della scienza moderna, paradigmaticamente della meccanica. La variabilità è il paradiso epistemico cui l’ontologia vorrebbe vietarci l’accesso. Senza il biglietto d’ingresso della variabilità la psicanalisi sarà costretta a soggiornare nel purgatorio delle narrazioni umanistiche, costruite a colpi di principio di ragion sufficiente e di considerazioni eziopatogenetiche, che dominano i casi clinici “che si leggono come novelle”. Le narrazioni psicanalitiche sono per lo più inconcludenti, perché necessariamente non conclusive. Le favole si sa come iniziano (C’era una volta un re), ma non si sa come finiscono, a parte l’e vissero felici e contenti. Il nostro Musatti impose alla Colorni di tradurre con Analisi terminabile e interminabile il titolo del saggio freudiano del 1937: Die endliche und die unendliche Analyse, propriamente L’analisi finita e infinita. Ma l’analisi narrativa non può mai essere infinita; finché non accoglie la precondizione per l’infinito, cioè la variabilità, l’analisi può solo essere interminabile, come “giustamente” fa tradurre Musatti; può essere solo narrazione ripetitiva: l’infinito e inconclusivo sbrodolamento di dettagli biografici, magari passando da un analista all’altro in una prolissa staffetta dell’annoiamento. Per la verità, esistono in letteratura poche ed eccezionali narrazioni che si cimentano con la variabilità. Conosco la Finnegan’s Wake o le pièce teatrali di Beckett. Quando la letteratura si avvicina alla scienza rischia di dissolversi. Ma proprio lì la psicanalisi ha qualche speranza di risollevarsi dal torpore cui l’ha condannata la narrazione psicoterapeutica del caso clinico, se si avvicina alla variabilità sincronica, lasciando decadere la variabilità diacronica o narrativa. Freud deve ancora inventare la propria psicanalisi scientifica. Aspettiamo che qualche epigono lo faccia per lui, cimentandosi con la variabilità in psicanalisi, magari dopo aver abbandonato al loro destino di fatuità narcisistiche le ricerche di senso e buona parte dell'ontologia (soprattutto quella in versione fenomenologica heideggeriana). * Due parole non conclusive sull'ontologia come vera antagonista della scientificità. L’ontologia è fatuità narcisistica. Siccome bene o male, non si sa come – per grazia divina? – ha acquisito un po’ di esistenza, il soggetto crede che il proprio essere, o qualcosa di analogo, sia diffuso dappertutto nell’universo. Così il soggetto si sente ingigantito e "sparato" fino ai confini del mondo. Topologicamente parlando, il soggetto concepisce il proprio essere come un insieme denso nell’universo: ogni punto dell’universo ha qualcosa di sé nelle vicinanze. L’ontologia è puerilità. E' la puerilità del bambino che vorrebbe essere già grande, con il coso del papà o la cosa della mamma. Ciò non toglie che il discorso ontologico sia promosso dal potere; infatti, al potere conviene avere sottomessi dei pueri invece che degli uomini adulti responsabili; i pueri si ipnotizzano meglio e pongono meno problemi di governance. Tipicamente gli ideali di grandiosità – la grandeur dei nostri confinanti francesi – è un fattore di coesione sociale molto efficiente. Non posso da ultimo non sottolineare che la puerilità ontologica è un tratto ricorrente di senilità. Fateci caso: sono i vecchi che parlano di ontologia, perché sentono che l’essere sfugge loro. Il vecchio Lacan si diceva insoddisfatto del termine epistemico unbewusst, che traduceva alla francese une-bévue (una “bevuta” o una “cannata” (lacannata? laconnerie?) nel linguaggio del gioco del biliardo); all’inconscio Lacan preferiva le réel. Da noi il vecchio Maurizio Ferraris propone un programma ontologico – il nuovo realismo – che sta riscuotendo un vasto consenso popolare. Continua alla pagina “Ancora a proposito di variabilità” Note (0) Popper è più moderno di Platone. Per Platone non si dà opinione del falso, perché il sapere è sapere dell’essere, che precede il sapere ed è per definizione vero (“opinare ciò che non è non è possibile”, Teeteto, 189b); per Popper, invece, si conosce solo attraverso il falso, falsificandolo empiricamente, mentre il vero non si può confermare con l’esperienza. Un esempio da Laplace: dopo 100 voli l’aereo non è caduto; la probabilità che non cada al 101-esimo non è 1 ma 101/102 = 0.99019; dopo 1000 voli la situazione non cambia concettualmente: 1001/1002 = 0.999002. (Torna su) (1) Per essere giusti con i greci antichi bisogna ammettere che riconobbero una forma sui generis di variabilità; la intendevano come indefinita divisibilità. L’algoritmo di Euclide, concepito per determinare il massimo comun divisore di due grandezze (la loro misura comune più grande), se parte da grandezze incommensurabili, come la diagonale e il lato del quadrato, non si arresta mai ma produce grandezze sempre più piccole senza fine. (Torna su) (2) L’être – c’est tout simplement l’être à la botte, l’être aux ordres. (“L’essere è semplicemente battere i tacchi, essere agli ordini”). J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX. Encore (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 26. (Torna su) (3) La terapia, in particolare la psicoterapia, è amore e servizio per il padrone. (Torna su)
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